2017 – Intervista di Pasquale Alfieri al Prof. Giulio Sapelli – estratto parziale –
Alcuni anni fa, al culmine della crisi finanziaria di questo inizio di secolo, in un’aula dell’Università Cattolica del Sacro Cuore , gli studenti del corso di Analisi Economica (…) hanno potuto assistere a un dialogo, che definirei storico, tra due economisti di generazione e temperamento diversi (…) Luigi Pasinetti e Giulio Sapelli. Molte le questioni dibattute quella sera, che il lettore può approfondire leggendo l’ultimo libro del primo Keynes e i Keynesiani di Cambridge e del secondo L’inverno di monti e Dove va il mondo.
A colpire però il pubblico giovanile è stato l’accorato appello dei due relatori a non considerare l’economia una scienza alla stregua della fisica, in cui le ultime scoperte comprendono o sintetizzano tutte le conoscenze precedentemente acquisite. L’economia, al contrario, rientra nel novero delle scienze umane, in cui nulla può essere lasciato definitivamente da parte, perché spesso si scopre che in un pensiero c’è ancora qualcosa che può essere portato alla luce, approfondito, ripensato e da cui può germogliare un’idea nuova, una rottura. È poco educativo far studiare solo ciò che è stato pubblicato negli ultimi cinque anni, magari nelle cosiddette top five (…) in questo modo a sparire sono la curiosità, lo spirito critico, la memoria immaginativa, il saper mettere in discussione. Qualità necessarie soprattutto oggi che l’economia mondiale vive una grande agitazione ed instabilità. È come se si fosse entrati in un mondo nuovo in cui bisogna pensare in un modo nuovo, ma sulle spalle dei giganti, cioè senza dimenticare i classici, proprio perché possono ancora aiutarci a formulare le buone domande.
Pasquale Alfieri: Complice il Premio Nobel per l’Economia, attribuito all’inizio della crisi economica a Elinor Ostrom, il cui straordinario libro sui beni collettivi ea stato pubblicato dieci anni prima e rapidamente dimenticato, la sua riflessione è stata strappata al silenzio e ha assunto una straordinaria attualità anche da noi. Che cosa ne pensa?
Giulio Sapelli: La mia vecchia amica Elinor Ostrom ha vinto il Nobel a 76 anni per la sua teoria sui common goods, sui beni comuni. Cioè sui beni che si definiscono “pubblici” non per la forma proprietaria statale, ma perché tale forma, non diretta al profitto individuale dei medesimi, è essenzialmente cooperativa, ovvero implica proprietà di piccoli e grandi gruppi sociali, e ne consente l’uso a tutti coloro che vogliono accedervi, seguendo regole che ne assicurano l’infinita riproducibilità. Ho polemizzato con Stefano Rodotà, di cui ho molto amato il “terribile diritto”, perché sostiene che l’acqua sia un bene comune, mentre io credo che si tratti di un bene che può essere privato, statale o un bene autogestito dalle popolazioni che storicamente ne usufruiscono. Il principio del common goods si fonda su quello della governance e prevede – questo mi sembra il punto su cui lavorare – un’allocazione dei diritti di proprietà diversa da quella del principio capitalistico, perché la proprietà è collettiva, il cui scopo è di distribuirlo in base alle esigenze delle famiglie della comunità (…). Il valore d’uso prevale su quello di scambio.
Pasquale Alfieri.: La materialità degli effetti della crisi è un incentivo a sperimentare. Attualmente si parla spesso di sharing economy per indicare forme di condivisione di servizi quali abitazioni, mezzi di trasporto, spazi di lavoro e altro, che coinvolgono ampi gruppi di persone grazie all’uso di piattaforme digitali. “Condividere” è una parola che richiama alcuni sinonimi, come “collaborare” o “cooperare”, densi di significato e che a loro volta alludono a esperienze di “economia sociale” che mirano a ricomporre economia e società.
Giulio Sapelli: A colpire, di tutte queste nuove forme di condivisione di beni e prodotti, è il fatto che esse riguardano solo l’uso e mai la proprietà. Colpisce l’assenza di ogni principio mutualistico e di qualsivoglia ipotesi di superamento della proprietà capitalistica. Se si pensa a quella poligamia delle forme dello scambio e insieme della proprietà, descritta nella Caritas in Veritate (cooperativa, not for profit, capitalistica) si nota immediatamente, in questo fiorire di forme di condivisione nella sfera economica, l’assenza sia della proprietà collettiva di stampo mutualistico sia della negazione del profitto come indicatore della proprietà privata delle forme regolatrici e di misurazione della performance dell’impresa, come accade appunto nel not for profit.
Pasquale Alfieri: Di che cosa si tratta allora?
Giulio Sapelli: Si tratta di una chiara reazione agli eccessi disvelati dalla crisi economica in corso, provocati dal principio dispiegato dello shareholder value. Nelle benefit corporation, per esempio, alla figura dello shareholder dominante viene affiancata quella dello stakeholder, che tempera e modera il primo, spostando la funzione di utilità da un principio di massimizzazione a un principio di convivenza e di utilità sociale. Si tratta così di un capitalismo ben temperato e che è certo meglio di un capitalismo ben dispiegato. L’impresa sociale, invece, favorisce l’implementazione dell’allocazione dei diritti di proprietà capitalistica, grazie ai quali tuttavia si può perseguire tanto la produzione quanto la fruizione di beni pubblici, com’è tipico delle teorie neoclassiche dell’economia del benessere, da Pigau in avanti. Le differenti forme di sharing economy o di economia condivisa si configurano come forme di condivisione della sfera dei beni di consumo, materiali o immateriali, e non mettono mai in discussione i principi della produzione. Quindi si disinterassano riguardo a quale forma di allocazione dei diritti di proprietà sia presente quanto essi, appunto, si consumano o se ne usufruisce. Qui si tratta di forme che nulla hanno a che vedere con i principi della proprietà cooperativa o del mutualismo e dunque non provocano quello “spauramento” quel “terrore” che si produsse nelle classi capitalistiche e nei loro intellettuali organici allorchè tra Otto e Novecento, con il plurimo sostegno intellettuale di giganti quali Alfred Marshall, Luigi Luzzatti, Leone Wollemborg e Friedrich W. Raiffeisen, Luigi Cerutti, Charles Gide, Ugo Rabbeno, Luigi Cossa, Giovanni Montemartini, si erse – Davide contro Goia – il principio cooperativo e mutualistico, che sfidava l’ipostatizzazione totalitaria del principio capitalistico della proprietà. Le molteplici forme di sharing economy non sfida infatti tale totalitaristica ipostatizzazione perché auspicano una biodiversità delle forme di consumo e non di produzione di beni e servizi.
Pasquale Alfieri: E l’economia circolare?
Giulio Sapelli: Il fatto che sia un’idea globale l’avvicina al modello cooperativo: anch’essa non tende a massimizzare il profitto ma la continuità d’impresa, quindi il lavoro. Perfino Marshall, uomo di straordinaria intelligenza e che nutriva una grande passione per la storia, dedica all’impresa cooperativa un capitolo nei suoi Principi di economia, base dell’economia neoclassica. Quello che mette bene in evidenza è che essa introduce proprio il principio morale dell’economia, la sostenibilità di chi lavora e della sua famiglia, e massimizza la continuità dell’impresa. Non distribuisce profitti, se non ai fattori della riproduzione. La questione su cui ragionare è come produrre valore in imprese che non siano a locazione di diritti di proprietà capitalistici. Io sono convinto che, se non cominciamo a costruire segmenti di fuoriuscita dal sistemo economico capitalistico attraverso, soprattutto, la forma d’impresa cooperativa, da questa crisi non usciremo perché quest’ultima è qualcosa d’inedito di mai visto prima. Al suo confronto quella del ’29 è stata una “timida ricreazione”. questa crisi, per esempio, crea disoccupazione strutturale e quindi la prima cosa da fare è creare occupazione dentro un processo lavorativo rivoluzionato dall’innovazione tecnologica. Purtroppo in Italia il pensiero cooperativo è sempre più debole, mina troppo l’impresa capitalistica.
Pasquale Alfieri: Il pensiero cooperativo incontra anche i common goods di cui parla Ostrom?
Giulio Sapelli: Certo, e il punto in comune è sempre legato ai diritti di proprietà. La Ostrom, che per tutta la vita lavorò sulla teoria e sulla pratica dei common goods è stata troppo rapidamente dimenticata e mistificata, disinnescando in tal modo la potenzialità alternativa e rivoluzionaria che la sua teoria contiene, tanto rispetto all’allocazione dei diritti di proprietà, quanto rispetto ai principi di una vera ed efficace corporate governance.